lunedì 30 aprile 2012

Porte Rosse

C'è uno stadio che è più mitico di San Siro. Mi ci sono affezionato da bambino e non l'ho più dimenticato, si chiama lo stadio delle "Porte Rosse".
L'origine del nome è controversa. C'è chi tira in ballo ragioni politico-ideologiche: il rosso del vecchio PCI. Chi, meno poetico e più concreto, fa notare che il colore delle porte un tempo era rosso appunto.
Niente righe di gesso a delimitare il campo. I contorni segnati da una collinetta e da un torrente, un affluente del Tevere.
Ogni volta che qualcuno rinvia è una sfida contro la corrente. Se perdi, il fiume si porta via la palla.
Alle "Porte Rosse" si gioca una volta a settimana, la domenica mattina verso le 10,30. 
Nulla di organizzato, chi si presenta è convocato, ha diritto ad un posto in squadra.
Poche regole, forse nessuna.
La panchina non esiste, si può giocare sette contro sette ma anche 14 contro 14.
Un capitano per parte, niente campagna acquisti, la squadra si decide a testa o croce.
Nessun limite di età, in campo dai 14 ai 70 anni.
Zero divisa: una volta c'erano le casacche fosforescenti, poi maglie nere contro maglie bianche, ora un più generico chiari contro scuri.
Nessun limite agli extracomunitari in campo.
Fermarsi a guardare una partita alle "Porte Rosse" equivale in un certo senso a studiare i fenomeni migratori che hanno attraversato il paese negli ultimi decenni. Un tempo in campo insieme a noi c'erano Said e Ahmed, due fratelli marocchini, poi Mirko e Claudio, stagionali del tabacco albanesi. Dopo di loro sono arrivati Dimitri e Nicola, romeni che a loro volta hanno lasciato il posto a Andrei e Denis, moldavi. Oggi ci sono Hector e Hugo, vengono dall'Ecuador.
La storia racconta di imprese epocali scritte tra le tante buche e la poca erba delle "Porte Rosse". Come la famosa rovesciata di "Bettega", 70 anni e un capello brizzolato che gli ha cucito addosso questo soprannome. Palla svirgolata e via a sirene spiegate verso il pronto soccorso.
Storie di calcio e generosità, come la colletta per regalare il primo paio di scarpe con i tacchetti a Rakesh, trentenne etiope che in campo (pe necessità più che per un vezzo) imitava il suo connazionale Abebe Bekila giocando scalzo.
O quella volta che dopo cinque minuti Fabrizio, portiere ma non per scelta, ha fatto una papera, è stato insultato dai compagni, ha preso il pallone e se nè andato a casa.
Sul campo delle "Porte Rosse" non hai mai corso un arbitro. Tutto fai da te, tutto lasciato alla sportività e all'onestà dei calciatori della domenica.
Conosco gente che dopo una partita alle "Porte Rosse" non si è parlata per anni.
Alle "Porte Rosse" non ci sono né spogliatoi né docce, non ci sono né gradinate né curve, non ci sono lampioni per giocare di sera né panchine per sedersi a riprendere fiato.
Eppure per me le "Porte Rosse" sono più affascinanti di San Siro.

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