Trenta anni fa il conflitto delle isole Falkland (Malvinas, detto all'argentina).
Il 2 aprile del 1982 la giunta militare di Buenos Aires, nel pieno di una pesante crisi economica, gioca la carta del nazionalismo e ordina l'invasione dell'arcipelago. Un pugno di terra immerso nell'Oceano Atlantico, al largo delle coste meridionali dell'Argentina, ma sotto il controllo del Regno Unito.
A Londra il primo ministro Margaret Thatcher vive un momento difficile, è in bilico. Viene contestata dall'opposizione laburista ma anche dal suo stesso partito, dai conservatori. All'estero il prestigio della Gran Bretagna non è più quello di un tempo.
Anche lei decide di giocare la carta del patriottismo con una risposta tanto fulminea quanto devastante. La task force della Royal Navy non impiega molto a percorrere dodicimila miglia di mare e riconquistare l'arcipelago.
La guerra finisce il 14 giugno con la presa della capitale, Port Stanley.
Per i militari argentini è il colpo di grazia, per la Lady di ferro nuova linfa vitale, a casa ma soprattutto agli occhi del mondo.
Il bollettino dei 73 giorni di guerra racconta di 649 militari argentini e 255 britannici morti. Migliaia i feriti.
Ma dietro i freddi numeri c'è uno schema preciso, da manuale. Crisi interna, crisi di credibilità internazionale. Crisi economica, contestazioni sociali. Minacce, proclami, propaganda. Richiamo al nazionalismo e al patriottismo. Prova di forza. Bombe e morte.
Ora applicate questa ricetta alla maggior parte dei conflitti combattuti dopo la Seconda Guerra Mondiale.
Funziona.
Almeno sulla carta.
* Ancora oggi l'Argentina reclama la sovranità sulle isole Malvinas (Falkalnd, detto all'inglese).
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