martedì 20 marzo 2012

Le prigioni di Omar

Omar ha diciannove anni. Quattordici mesi fa è scappato dal suo paese, il Sudan, è scappato dalla guerra. Ha attraversato il deserto. Ha pagato per un passaggio a bordo di un camion, poi ha camminato a piedi, ha visto morire i suoi compagni di viaggio, rimasti senz'acqua a 50 gradi. E' entrato in Libia da clandestino e la polizia lo ha arrestato. In galera c'è rimasto cinque mesi, fino a quando i suoi familiari sono riusciti a corrompere le guardie. Una volta fuori, a Tripoli, Omar ha aspettato la notte giusta, quella senza vento e senza nuvole, quella con il mare calmo. E' salito su un barcone e ha attraversato il Mediterraneo. Tre giorni e tre notti in mezzo al mare, poi il motore si è rotto e la carretta ha cominciato a imbarcare acqua. Alcuni si sono fatti prendere dal panico e si sono buttati in mare, sono morti annegati. Omar ha aspettato, a salvarlo è arrivato un peschereccio, poi una motovedetta della Guardia Costiera. Sbarcato sul molo di Lampedusa lo hanno avvolto in una coperta termica. Ha passato la notte nel presidio medico dell'isola. Ipotermia. Da li hanno portato nel centro di identificazione e espulsione (Cie). C'è rimasto tre settimane. Poi è stato trasferito in un altro Cie, in un'altra città italiana. C'è rimasto un mese. Ora è fuori, in attesa gli venga riconosciuto lo status di rifugiato politico. Vorrebbe andare in Francia, a Nizza, dove vivono i suoi fratelli e le sue sorelle, ma non può. La legge dice che è il paese europeo dove uno arriva a dover curare le pratiche di asilo e finché tutto il procedimento non è concluso, il richiedente non se ne può andare. Omar è fuggito dalla guerra ma è stato fatto prigioniero, prima dalla polizia libica, poi dalla burocrazia italiana.

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